Popilia riflette sul tema dell’anno:

<Noi ci stiamo interrogando su come prendersi cura di noi stessi e dell’altro in questo tempo di pandemia. Alcune domande emergono: come è possibile prendersi cura se si vivono distanza, angoscia, paura del contagio e della morte, tutte resistenze che ostacolano il prendersi cura?

Se il prendersi cura è riferito all’ambito sanitario, gli attori sono il medico che cura e il paziente che è curato, ma se ci spostiamo nell’ambito familiare, scolastico, sociale, cosa vuol dire prendersi cura?

Per comprendere meglio ci viene in aiuto la parabola del buon samaritano (vangelo di Luca 10,25-37). Scopriamo che il prendersi cura è in relazione con il malessere fisico, psichico ed emotivo. Questo implicitamente ci pone in una condizione di interdipendenza dall’altro: io ho bisogno che l’altro si prenda cura di me e l’altro ha bisogno che io mi prenda cura di lui.

“Un uomo scendeva… un samaritano lo vide e ne ebbe compassione”: il prendersi cura necessita di uno sguardo che si poggia su un volto, su un nome; è una scelta intenzionale che richiede tempo e radicamento. Cosa ci spinge a fermarci e a prenderci cura di noi stessi e dell’altro?

È l’esperienza di uno sguardo di compassione, ricevuto gratuitamente e che gratuitamente si dona e non passa oltre. E quando le situazioni della vita ci portano a non avere né bende, né olio, né vino, né mulo, né soldi per risarcire, e ci sentiamo svuotati e assaliti dall’impotenza, che ne è del prendersi cura? Che ne facciamo di questa povertà? “… e gli si fece vicino…”: rimaniamo lì, stiamo lì, a patire con l’altro>.

Foto: disegno di un ragazzo rom durante un’attività


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